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Prefazione

Che ragione c'è di continuare a pensare a quello che avremmo o non avremmo potuto fare per controllare il corso che la nostra vita ha preso?
È sufficiente che almeno tentiamo di offrire il nostro piccolo contributo 
a favore di qualcosa di vero e di degno.
E se alcuni di noi sono pronti a sacrificare molto, nella propria vita, 
per perseguire tali aspirazioni, ciò sicuramente rappresenta in sé, quali che siano i risultati che ne derivano, motivo di orgoglio e di felicità.”

 

Kazuo Ishiguro [1]

cit ishi1

Si è concluso un ciclo. Ho dovuto faticare a lungo, arrovellarmi per trovare nuove giustificazioni e mentre scrivo, forse, non ho ancora accettato con il cuore questa realtà.

Razionalmente è abbastanza facile da spiegare: un ciclo è solo un periodo della vita, non la vita stessa; io ho affrontato questo periodo con un particolare schema di riferimento, o meglio, è stata una fase caratterizzata da una ricerca di schemi di riferimento.

Adesso non è finita la ricerca, non è finita la vita, ma sono nuovi gli scopi e le motivazioni che assumo nell'avvicinarmi al mondo.

Azzardo un paragone con le avventure di Ulisse che vanno dal termine della guerra di Troia al suo ritorno ad Itaca: conosciamo questo periodo e ciclo di avventure come Odissea. Il mito ci tramanda che, successivamente, quest'eroe se ne è ripartito alla ricerca di qualcos'altro. Ma questa è un'altra storia.

Fatti i debiti paragoni, anch'io e i miei compagni di avventura, stiamo già ripartendo verso altri lidi, ma in un altro modo.

Dell'esperienza che si chiude, però, sento ancora la necessità di un epilogo, per far sì che il lavoro fatto non vada disperso. L’impegno è stato grande e non voglio correre il rischio che rimanga soltanto un vissuto di perdita di tempo e di energie. Tanto meno ho intenzione di rimpiangere questi anni: preferisco che rimangano il seme di esperienze future e non necessariamente le mie.

Mi piace pensare che ciò che ho vissuto e che mi ha arricchito è stato bello non solo per me, ma può entusiasmare anche altri; mi piace pensare che qualcuno ripassi su un tratto della strada che ho percorso, trovando utili e interessanti stimoli per proseguire il cammino. Anch'io, del resto, dovessi ripassare, rivedrei volentieri i segni che ho lasciato.

Per questo ho pensato di documentare con uno scritto quel che è successo, redigendo una cronologia dei fatti succeduti in un centro diurno per disabili. Sfoglio così i diari e ripercorro con la memoria i vari aspetti del lavoro svolto. Rivivo, per fortuna sempre più serenamente, episodi che hanno contraddistinto le relazioni nel bene e nel male. Dall’esterno rivedo un film che ho interpretato in prima persona.

Tuttavia, come un film è solo una superficie in due dimensioni, una pellicola proiettata su uno schermo piatto, un centro diurno è solo una facciata di un’istituzione e non tiene conto di ogni aspetto. Allo stesso modo, il fatto di considerare gli eventi ordinati nel tempo, beninteso reale, mi sembra un limite convenzionale che non renda pienamente l'esperienza umana. «Un avvenimento diventa esperienza, si sposta dall'esteriore all'interiore, si fa anima, quando passa attraverso un processo psicologico, quando l'anima vi influisce in uno dei suoi tanti modi».[2]

Più che la cronaca delle situazioni preferisco attraversare le emozioni vissute, che, come nei sogni, non sempre sono collegate chiaramente da un filo logico. Infatti, tramite questi vissuti un avvenimento riabilitativo si è trasformato e ha acquisito un senso sempre più profondo: un lavoro "sul" diverso socialmente, è diventato un processo di consapevolezza compiuto "con" l'altro. In questo termine inserisco gli utenti e i loro familiari, i colleghi, gli amministratori e tutti coloro con i quali sono entrato in contatto durante questo cammino di ricerca. Nel far questo mi trovo imbarazzato nel descrivere la “mia” esperienza, piuttosto che la “nostra”. Devo decidere se usare il singolare o il plurale nel fermare sulla carta le circostanze che si sono susseguite.

Userei il plurale perché trovo stupida questa separazione tra me e gli altri, visto che in questi anni il cammino comune ci ha portato a capire che le nostre sorti si sono strettamente e reciprocamente influenzate.

D’altra parte, se rifletto un momento in più, mi rendo conto che ho in mente il mio vissuto soggettivo, che certe elaborazioni le ho partorite io, in momenti di intimità con me stesso. Quindi, anche se non mi risulta facile, racconto la mia esperienza. Lo sforzo che compio mi sarà d’aiuto per addolcire il distacco.

 

 

  Alba, settembre 2001

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[1] K. Ishiguro, Quel che resta del giorno, Torino Einaudi, 1994

[2] J. Hillman, Le storie che curano, Cortina Editrice, 1984

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