La tessitura
"I telai conservano una sorta di faticante e trepida bellezza,
nella nostalgia e nel rispetto dell'uso cui fingono di essere destinati,
non sono quelle macchinette inservibili (…) che contestano l'utilità della tecnica,
divenuta non più strumento, ma padrona dell'uomo."
Marcello Venturoli
Devo dire che proprio quest’attività mi spinge a cercare un significato più profondo, perché , ad un primo approccio, la trovo poco educativa. Nel tessere si corre il rischio di instaurare stereotipie, meccanicismi. Il movimento sempre uguale sembra portare con sé la minaccia dell’alienazione nel lavoro.
Inoltre appare prevalentemente individuale. Si corre il rischio di isolarsi in se stessi. A prima vista, quindi, un‘attività da evitare in un servizio riabilitativo.
Per cercare di fugare queste mie perplessità, seguo il percorso che mi prospetta il lavoro al telaio. Il primo passo è la costruzione dell’ordito. In latino il termine "ordiri", sempre derivante dalla radice ARE, significa proprio “iniziare a tessere”, cioè disporre l’ordo, un gruppo di fili, che vanno scelti, misurati e contati. L’ordito è una guida: è necessario seguirlo per ottenere un prodotto corretto. La costruzione dell’ordito mi propone un limite entro il quale lavorare, la regola a cui mi devo attenere.
Come "Ordal” in sassone antico significa giudizio divino, ineluttabile, così non solo è importante, ma è indispensabile stabilire un ordine prima di proseguire, prima di tessere.
Incuriosito dalle rivelazioni sul significato profondo dell’ordito, continuo a seguire una pista etimologica per un’attenta considerazione della tessitura. La radice etimologica di tessere è TEKI, dalla quale il greco tekton = taglialegna, il tedesco deichsel = accetta e l’italiano tetto, tegola.
Le tegole primitive erano pezzi di legno, paletti, disposti ordinatamente con diverse funzioni: delimitare i territori e separarli tra loro, ma anche coprire e proteggere. Servivano, come del resto anche oggi, a costruire un tetto.
In un periodo successivo anche ai fili si riserva questo trattamento: una volta ben disposti, possono servire a coprire, proteggere.
È interessante notare come da un significato analogo, dal latino secare che significa tagliare, decidere e scegliere, si siano sviluppati termini come scienza, scibile, coscienza.
Quando il tessitore si avventura nella sua arte, la prima operazione che compie è da sempre conoscere, scegliere, dividere. Ammetto che è un ottimo punto di partenza per evidenziare i processi cognitivi impegnati. La coscienza è una conseguenza della divisione, della scelta, della crisi.
Nel tendere l'ordito la radice ten ci ripropone rigidità, contrazione. Rispettando questa tensione dell'ordito, si deve disporre la trama. La radice etimologica di trama, *TRAGHS-MA, è la stessa di attraversare, cioè andare in mezzo. Tramare significa insinuarsi nell'ordito, nella regola definita, capire, farne propria l’essenza e, in questo modo, costruire un tessuto.
Mi fa riflettere la dinamica di quest'azione che appare, in un certo senso, contraddittoria: mentre si batte si piegano le braccia verso di sé in un atteggiamento di chiusura, ma contemporaneamente il tessuto cresce, si apre, si allunga.
Nella battuta, l'energia dev'essere rilasciata, ma in misura adeguata; il filato, allo stesso modo, deve rimanere nella misura della larghezza stabilita dell'ordito. È questo il senso che mi offre la tessitura: il rispetto delle regole.
Noto con un certo interesse come, con il passare del tempo, un occhio divenuto esperto, individua l'autore di un tessuto dal tipo di battuta. Ne deduco che la disposizione della trama mi offre un nuovo punto di vista, una nuova chiave per capire l’individuo che l’effettua; la battuta si rivela, perciò, un tratto distintivo.
Un tessuto compatto è dato da una battuta violenta. Questa, oltre a mostrare come il tessitore rivolga la sua aggressività al pezzo lavorato, indica come la propria forza non sia dosata, ma scaricata, a volte anche violentemente. Tale tratto d’insicurezza mi fa pensare che l’autore non possa essere in grado, per capacità o per volontà, di "regolarsi", tanto che scarica verso se stesso il più possibile ad ogni passaggio di trama. Il risultato è una chiusura, ristrettezza della trama, una rigidità del tessuto che rispecchia la rigidità dell'individuo. Questi sarà competitivo, invidioso, geloso delle attenzioni ricevute da altri, anche se non sempre si manifesterà nei suoi atteggiamenti: infatti anch'egli, come il suo tessuto, è strutturato in modo da "lasciar passare" il meno possibile le emozioni.
Viceversa chi, con un briciolo di esibizionismo, vuole lasciar intravedere qualcosa di sé deve avere una battuta delicata e deve sapersi fermare un po’ prima rispetto al passaggio precedente. Per questo il lavoro sulla trasparenza è anche un lavoro “diplomatico” dove, in qualche modo, ci si deve frenare prima di scontrarsi. Il tessuto sarà morbido, leggero, adattabile come lo è una persona che non vuole discussioni con nessuno; infatti essa ritiene che questa sia una condizione per essere accettati e apprezzati.
Quando nel disporre la trama il tessitore non rispetta le cimose, i fili che delimitano lateralmente l’ordito, il tessuto si restringe. La regola imposta non sta bene e, per voler trasgredire o per peccato di distrazione (che è sempre una trasgressione!), l’individuo finisce così per distorcere e limitare ancor più le prospettive.
Porto questi esempi per chiarire che nel disporre la trama si racconta un po’ di se stessi e del momento che attraversiamo mentre costruiamo un determinato tessuto.
Il linguaggio parlato ha recepito questa funzione della trama come racconto. Infatti, il termine trama è anche usato per descrivere un evento. E.M. Forster dice che «La trama è […] una narrazione di avvenimenti, ma qui l'accento cade sulla casualità: 'Il re morì, poi morì la regina', è una storia. 'Il re morì, poi la regina morì di dolore' è una trama. Un racconto dice cosa avvenne poi, una trama ce ne dice il perché». [21]
Su questo Hillman ne deduce che «Imbastire una trama è passare dalla domanda "che cosa accadde allora?" a quella "perché accadde?" ». [22]
Affronterò più avanti l’aspetto della narrazione verbale, ma prendo spunto dalla deduzione di Hillman per evidenziare che il tessere possiede un aspetto narrativo, come del resto ogni attività artistica e artigianale. Se Forster e Hillman parlano di trama narrativa, affronto il parallelo nella pratica artigianale. Infatti questi autori descrivono chiaramente le due prime domande che mi sono posto: cosa e perché.
Perché faccio tutto questo? Ho sentito dire da una vecchia india peruviana che tessere un poncho è un atto d'amore. Questa donna di età veneranda avrà tessuto centinaia di ponchos, ma ancora dopo tanti anni il tessere, per lei, è un atto d'amore.
Ad una ragazza che frequenta il centro diurno chiedo che cosa possiamo regalare ad una collega educatrice che ha avuto un bimbo. Subito mi risponde “Potrei fare una copertina di lana al telaio”.
Questa ragazza negli anni ha imparato a tessere. Inizialmente anche lei aveva quella battuta pesante che forma un tessuto impenetrabile. Ha imparato a dosare la sua aggressività ed ora è in grado non solo di fare una morbida coperta di lana, ma soprattutto di decidere di farla come regalo per un bimbo piccolo.
Le motivazioni dell’india e della ragazza sono basate sull'amore: l’una copre il suo uomo con un poncho, l’altra copre il piccolo con una coperta. Ritorna l’idea di coprire, 'prendersi cura di'.
Metaforicamente si parla di dare un tetto, come per dare un rifugio sicuro, così anche il tessuto copre, protegge, riscalda. Tetto e tessuto hanno la stessa radice etimologica teki. Associo la funzione del limite al senso di sicurezza. Un'attività artigianale che mi richiede una regola. Perché lo faccio? Se il “cosa faccio” mi riporta ad aspetti legati alla ragione, quali la costruzione dell’ordito, con regole da rispettare, il “perché” avvicina ai sentimenti. Non sono così convinto che gli aspetti “regolanti” siano staccati da processi emozionali, ma non voglio affrontare ora tale questione. Certo è che per rassicurare, riscaldare, per coprire qualcuno o qualcosa, per amore, o meglio compassione, inteso etimologicamente (cum-pathos) come comunione di sentimento, ci vuole qualcosa di più della semplice ragione. Un valore aggiunto, lo stesso che distingue l’usare un telaio da il saper tessere.