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La ricerca teatrale

Il solo dramma che mi interessi veramente e che vorrei sempre riportare daccapo è lo scontro di ognuno con ciò che gli impedisce di essere autentico, con ciò che si oppone alla propria integrità, alla propria integrazione.

André Gide [27]

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Mi accorgo che gli spiragli che si sono aperti grazie alla sperimentazione artigianale offrono punti di vista ancora inesplorati.

Le nuove elaborazioni del lavoro finora compiuto mi portano di fronte ad una scelta: posso fermarmi e ritornare sui miei passi, oppure fare un salto di qualità a livello relazionale e da qui proseguire. Ho l’impressione presuntuosa che quasi tutti i miei colleghi abbiano già mantenuto in passato un atteggiamento di maggior disponibilità rispetto a me e per questo ora non si trovino di fronte ad un vero bivio: piuttosto trovano una prosecuzione forse difficile, ma logica, del percorso. Diversamente le mie aspettative, dettate perlopiù da rigidi schemi relazionali, mi fanno resistere e perciò indugio sulla scelta. Entro così in contrasto con l’équipe, in particolar modo con un collega. Questa è una fortuna perché proprio in questo consiste la mia scelta: in passato avevo sempre cercato di evitare i contrasti, di sfuggire alle responsabilità, ma ora, accettando una contrapposizione, accetto una modalità di rapporto per me nuova. Prima mantenevo un atteggiamento polemico e competitivo, non costruttivo. Ora vedo la possibilità di una crescita soprattutto grazie ad una divergenza. Questo è pur sempre il prodotto di una relazione: sfuggire al contrasto significa evitare la relazione nella sua completezza.

Ho accettato di stare “nel” gruppo e assieme al gruppo ho scelto di accogliere la necessità ed il rischio di una trasformazione. Questa evoluzione dei rapporti conduce in un territorio dove ancora non ci sono segnali. È necessario tracciare il percorso.

Desidero riportare per esteso un passo del filosofo francese Olivier Revault d’Allones: «La sola differenza reale ed irriducibile tra modello e progetto mi sembra essere questa: un modello è sempre “chiuso”, nel senso che permette di rispondere in modo molto preciso alla domanda “Che faresti in questa o in quella situazione particolare” []. La virtù del modello sta nel fatto che esso permette di costruire il discorso con i propri complementi: è uno strumento da campagna elettorale; vi possono essere delle domande impreviste. Non ve ne sono cui non si possa rispondere, evidentemente allargando il modello. Per il progetto avviene esattamente il contrario, contemporaneamente sul piano empirico e su quello teorico: non si può né si vuole rispondere. E questo […] perché il progetto consiste proprio nel dar fiducia a qualcuno o a qualche cosa, a lasciargli, a restituirgli o a dargli infine la sua libertà: non la mia o quella del modello, la sua. »[28]

In questo passo è chiarita esaurientemente la scelta per l’effettuazione di un progetto per il gruppo, che integri diversi aspetti che sono scaturiti: i ruoli, le competenze, le emozioni individuali, le dinamiche, l’entusiasmo e l’energia del gruppo; l’idea è di far questo senza cadere negli schemi vincolanti di un modello che limiti le libertà dei singoli.

In altre parole, più che stare a spiegarci che cosa facciamo, stiamo assieme, crediamo negli altri e viviamo il rapporto in ogni momento, ognuno in prima persona.

«Probabilmente non è un caso che la parola “persona”, nel suo significato originale volesse dire maschera. Questo implica il riconoscimento del fatto che ognuno , sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte … È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni con gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi. »[29]

Le dinamiche del gruppo fanno scaturire questi ruoli, alcuni dei quali già predisposti dal modello istituzionale del Centro Diurno, altri sviluppatisi nel tempo. In questo percorso di conoscenza interpersonale consolidiamo il senso di gruppo e denominiamo questo processo “progetto di espressione teatrale”.

Purtroppo, parlando di teatro, spesso si pensa esclusivamente alla rappresentazione teatrale. Di fatto, quest’ultima non è che il momento conclusivo di un percorso di studio e approfondimento di parecchie tappe. Queste si percorrono gradualmente ben prima di un momento "fissato" in un palcoscenico.

Ad ogni confronto su questo tema, tendo a tralasciare tale considerazione perché mi sembra ovvia, ma spesso non è così, in particolar modo se il dibattito avviene con chi rappresenta l’istituzione per il ruolo che riveste. Allora mi accorgo di dover chiarire questo aspetto che non si può considerare "solo" linguistico.

Linguistico perché la parola “teatro” significa “luogo per guardare”. Perciò l’istituzione, come sistema normato e normativo, identifica il “modello” di teatro con il luogo della rappresentazione. Di conseguenza il linguaggio corrente divulga questo significato. Diversamente il progetto di ricerca teatrale non è un luogo chiuso e nemmeno un insieme finito di attività o regole, ma è un’esigenza di vivere per conoscersi ed esprimersi.

Ovviamente l’équipe sente la necessità di punti di riferimento nella pratica quotidiana. Cerca i “luoghi mentali” dove indirizzare l’impegno. In questo senso le attività già presenti nel centro diurno si prestano molto bene a svolgere la funzione di tramite tra scoperta emozionale e realizzazione pratica. In questo caso “teatro” è il collante che riunisce e trasforma le energie del gruppo, indirizzandole verso un momento espressivo.[30]

A questo punto entra in gioco il termine “rappresentazione”, ogniqualvolta si manifesta la relazione di un individuo con un altro. Quando un individuo diventa consapevole di una parte di sé, nascosta, coperta, ad un tratto la esprime, rappresentandosi. L’uomo specchia se stesso nella vita vissuta e da qui il termine spettacolo, in latino piccolo specchio.

«E non sarà una rappresentazione se rappresentazione vuol dire superficie piatta di uno spettacolo offerto a qualche voyeur»[31]. Mi approprio arbitrariamente di queste parole che bene stanno a significare l’atteggiamento vitale che manteniamo durante la ricerca. Certo, ci viene fatto osservare che il nostro gruppo lavora se non sulla base dell’eccitazione, ma è il rischio che abbiamo scelto di affrontare. Per non avere un risultato “piatto”, dobbiamo creare una certa tensione e mantenerla senza subirla. Non nego che possiamo mostrare il lato di noi più caotico e complicato, ma d’altronde «Si direbbe che là dove regnano la semplicità e l’ordine non possa esserci teatro né dramma e il vero teatro nasce, […] da un’anarchia che si organizza…»[32]

Durante il percorso di sperimentazione vedo crescere un senso di empatia tra gruppo utenti e gruppo operatori. Per la verità, la consapevolezza di questa, nasce come problema: nell’équipe di operatori ci poniamo la preoccupazione di non farci influenzare nelle dinamiche di gruppo dalle problematiche che sorgono nel gruppo utenti. Cosa in realtà poco probabile, dal momento che viviamo assieme otto ore al giorno per cinque giorni la settimana. Perciò accettiamo la differenza tra noi, non solo come fattore inevitabile, bensì proprio come l’aspetto che ci tiene uniti e ci fa maturare come gruppo. I ruoli, beninteso, rimangono e in alcuni momenti vengono addirittura rinforzati, proprio per le caratteristiche stesse della drammatizzazione. Perdono invece importanza pregiudizi o moralismi sulla differenza tra i ruoli.

Un fatto, ad esempio, mi ha chiarito come io stesso sarei ancora in cagnesco con un collega, per la mia invidia verso la sua leadership, se non avessi riconosciuto il suo ruolo di regista nel progetto. Questo semplicemente perché egli “è” il regista del gruppo; definisco il suo ruolo e contemporaneamente il mio.

Mi si contesta che “l’attività teatrale è svolta per un bisogno degli operatori”; ora desidero precisare che la ricerca teatrale, così come l’abbiamo affrontata, risponde ad un funzionamento mentale globale del gruppo. Con una figura ormai retorica posso dire che questo è molto di più dell’insieme dei bisogni di tutti i partecipanti. Anche tale definizione, però, mi sta stretta, in quanto non sottolinea sufficientemente l’espressione dei bisogni stessi. Posso capire come, non essendo entrati né concretamente e attivamente, né nello spirito del cammino intrapreso, appaia (e sottolineo questo verbo) il narcisismo di chi si espone. Suggerisco, però, di andare oltre l’apparenza per attraversarla e comprendere, man mano che il percorso si snoda, il valore delle molteplici sfaccettature che compongono questa ricerca.

A questo proposito mi piace caratterizzare questo lavoro come ecologico, dove l’impegno di ogni individuo, operatore o utente, familiare o obiettore di coscienza che sia, è in funzione dell’equilibrio globale.

Per questo, con un linguaggio ecologista, sottolineo un’idea di fondo sottintesa che ci sostiene ed è “riciclaggio”. Riciclaggio non è un’attività, ma uno stile di vita, che calza bene ad un centro diurno socio educativo. Per riciclare è necessario raccogliere gli scarti, cioè utilizzare in modo diverso ciò che non può servire, per proiettarlo in un’altra dimensione, con un altro punto di vista.

Le ”devianze” di ogni genere si scartano. Così, da migliaia di anni l’handicappato è scartato. Con una terminologia, tutto sommato, recente, viene chiamato disabile, non adatto a svolgere certe funzioni. Ragione in più per andare oltre ad un “normale” punto di vista. Riciclaggio, infatti, è cercare diverse opportunità, sia per i materiali, sia per le persone, come è anche elasticità sociale nel riconoscimento di trasformazioni possibili. Diverse culture non solo del passato ci mostrano che i devianti, se non sono soppressi per tempo, diventano oracoli, sciamani. In altre parole, nel processo di normalizzazione di una società è tanto facile considerare le stesse persone come semi-uomini, in senso spregiativo, ma anche semi-dei.

Scopro l’acqua calda affermando che si può dare nuovo ciclo anche agli aspetti più interiori, emozionali di ognuno di noi: cioè, se un’emozione, un sentimento, come anche un atteggiamento in una determinata situazione possono sembrare inadeguati, non per questo è il caso di escluderli definitivamente. Piuttosto è sufficiente cambiare situazione oppure essere critici con tali manifestazioni, che si possono rivelare costruttive, evolutive.

Non si tratta di pietistico recupero, che significherebbe mantenere un punto di vista statico, l’altra faccia del rifiuto, ma di valorizzazione in contesti che possono essere dinamici e mutevoli a seconda dell’attore, “colui che agisce”, che in questo modo crea un personaggio e la sua realtà.

Di fatto non mi risulta agevole proporre una visione spezzettata di ciò che vivo come globale. Posso affrontare la descrizione della ricerca teatrale tramite i nodi cruciali come il corpo, lo spazio e il movimento, con conseguenti diramazioni verso la voce e la musica, il personaggio e il costume, le luci e la scenografia. Contemporaneamente intendo osservarla attraverso diversi specchi: le attività che il centro diurno ha sempre proposto e che il progetto di espressione teatrale ha il merito di integrare, fornendo su di una base unitaria un senso comune.

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[27]  A. Gide, Gide Journal, 1918

[28]  O. Revault d’Allones, Destrutturazioni, Faenza Ed. 1976

[29] R.B. Park, Race and culture, cit. in Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, 1969

[30] K. Marx - F. Engels, “Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.” cit. in P. Tranchina, op. cit.

[31]  J. Derridda, prefazione a A. Artaud, op. cit.

[32] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968

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