La nostra società abusa di segnali, indicazioni per l’uso della nostra vita. Per ‘segnale’ intendo ciò che si può definire oggettivo, che tutti possiamo percepire, al di qua di ogni valore simbolico e di qualsiasi interpretazione. Spesso queste indicazioni tarpano le ali della nostra fantasia, con il rischio di racchiudere la nostra creatività e il nostro libero arbitrio in sistemi di segni, modelli sempre più elaborati e omologanti. Rivisitando questo periodo, trovo due indicazioni importanti, grandi segnali che ogni operatore sociale è invitato a seguire: riabilitazione e educazione.
Nonostante io ritenga che, alla lunga, ciò determini un’alta percentuale di stati depressivi, anch'io seguo queste indicazioni: è il mio lavoro. Certo, un bel lavoro, ricco di valori umani e sociali.
Altri segnali indicano la direzione da seguire: tra questi vedo attività artigianali, espressive, logico-matematiche; osservando la pratica quotidiana il mio pensiero iniziale è che tutto ciò si svolge nel rispetto dei tempi individuali di apprendimento e di realizzazione dei manufatti. A prima vista è tutto molto bello e chiaro, ma internamente mi pongo una riflessione: che cosa sto facendo? Che senso ha tutto questo? È interessante, ma insipido: posso, sì, seguire i segnali, a patto che diano un qualcosa in più. «Abbiamo soprattutto bisogno di vivere e di credere in ciò che ci fa vivere e che qualcosa ci fa vivere ... »[8]
Non rimango indifferente quando mi inoltro nel territorio socio educativo. Il viaggio non è una crociata, ma sprigiona una sensazione forte: sento che c’è un'anima in ciò che faccio e questa mi fa vivere. Il mio compito è di vederla e riconoscerla.
La società chiede all'operatore socio assistenziale di assolvere ad un incarico di riabilitazione; ma che cos'è la riabilitazione? Credo che dire di riabilitare gli altri sia una sciocca presunzione, dettata da un buon grado di incoscienza del valore degli altri e di sé.
Ricordo, per esempio, quando affermazioni giornalistiche ci avvisavano che Nietzsche o Pasolini “sono stati riabilitati dalla sinistra": che senso ha? Questi grandi uomini di cultura non ne avevano certo bisogno, dato che sono stati sempre sufficientemente "abili". Piuttosto è stata la sinistra, con i suoi dogmi e i suoi principi, il suo pensiero e le sue linee di condotta, a riabilitare se stessa, prendendo coscienza di aspetti, fino ad allora negati o ignorati, resi concreti nel pensiero e nell'opera di questi pensatori.
Similmente, l'operatore sociale che secondo l’opinione corrente interviene in aiuto di altre persone, in realtà può riabilitare solo se stesso, cercando di essere più consapevole, sia delle diversità che affronta, cioè la propria e quella dell'altro, che delle azioni che intraprende per renderle compatibili con il sistema sociale dei valori. Inoltre, c’è da sperare che l’operatore stesso non elabori un tentativo (peraltro molto presuntuoso) per eliminare le differenze. Questo si rivelerebbe un passo verso una cultura totalitaristica, come ci ricorda Adorno [9], attenta all’altro solo per poterlo controllare.
Piuttosto, io, operatore sociale, devo prendere consapevolezza della qualità delle relazioni che instauro con gli altri. Posso fermarmi alla forma, all'apparenza, ma questa è riabilitazione? Che senso ha agire in modo da modificare la superficie, l'immagine? Le istituzioni sociali si attivano per rispondere al bisogno dell'individuo di differenziarsi, di riconoscersi nella propria unicità, fornendo un'identità intesa come ruolo sociale. Allora riabilitare significa cercare di integrare in un sistema del lavoro chi è considerato disabile, deficitario, handicappato. Ma «...I cosiddetti emarginati non sono mai stati ‘fuori di’. Sono sempre stati ‘dentro di’. Dentro la struttura che li trasforma in ‘esseri per l’altro’. La loro soluzione, allora, non consiste nell’‘integrarsi’, nell’‘incorporarsi’ dentro questa struttura,[...] ma nel trasformarla per divenire ‘esseri per sé’».[10] Personalmente credo che restaurare la facciata non sia sufficiente per rispondere ad un fermento interiore che pone in continuazione domande, a volte si manifesta come disagio, mette in crisi e in questo modo fa emergere la propria individualità a dispetto dell'omologazione superficiale. Restaurare la facciata è più un bisogno della società che dell'individuo singolo.
Educare è un bel verbo: significa condurre fuori. Possiamo immaginare che le potenzialità nascoste di un singolo, grazie all'educazione, escano allo scoperto. Tuttavia il linguaggio corrente tradisce queste buone intenzioni: "Non essere maleducato!" si dice proprio a chi esprime se stesso, a dispetto delle convenzioni sociali. Educare assume il significato di tirare fuori gli altri da una condizione che la società ritiene inadeguata rispetto al modello stabilito.
Nel lavoro dell’operatore sociale si incontrano alcuni concetti che ci ricordano che operiamo in un quadro istituzionale e come in ogni istituzione quando parliamo di diversità, presupponiamo un modello di riferimento normale, dal quale, soltanto entro certi limiti, ci si può allontanare. La normalità, perciò, sottolinea una condizione tutt'altro che naturale, bensì culturale costituita dal pensiero umano per regolare, normalizzare, per l’appunto, i rapporti tra le persone.
Non escludo le regole biologiche, come per esempio l’alterazione della catena dei cromosomi. L’operatore sociale, però, non si occupa di quelle, se non come presunte cause del disagio o effetti collaterali di questo. Tuttavia è incaricato di rispondere al bisogno di normalità; interviene affinché ogni individuo sia portato a cercare un ruolo sociale e ad identificarsi con esso. Costruirsi un’identità significa, infatti, "essere uguale a...", identico (dal latino id o idem = lo stesso).
Una serie di caratteristiche biologiche e biografiche dell’individuo nella storia sono state considerate troppo lontane dal modello normale, tanto da indurre l’uomo ad istituire una serie di modelli, cosiddetti "diversi". In questo modo si definisce uno standard e per seguire le mode ed entrare nella media, la gente è disposta a rinunciare alla ricerca di sé.
A differenza di quanto succede con i “guru” spirituali, seguendo i quali le persone cercano di elevarsi, la società contemporanea forma dei maestri che cercano gli allievi. L’incarico dell’educatore sociale, a pensarci bene, è molto triste, perché sta ad indicare chiaramente che non si occupa direttamente di se stesso, ma per rafforzare il proprio senso di adeguatezza sociale, interviene su gli altri.
Invece di cercare dentro di sé il sentimento, la passione, le proprie emozioni che lo rendono unico, l’educatore sposta all'esterno il problema e definisce ogni conflitto come espressione sociale, riletto nei termini di adeguato/inadeguato, abile/disabile, handicappato/normodotato. Per riuscire nel suo lavoro spesso è portato a “frammentare” chi gli sta davanti in diverse abilità o funzionalità da “ricostruire”.[11]
Non intendo contrariare gli educatori, ma osservo un dato di fatto. Quando non riusciamo a vivere i nostri conflitti interiori spesso li subiamo; non volendo patire, come possiamo provare sentimenti, com-patire? Se l’educazione è armonia, l’educatore corre il rischio di stonare.
[8] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, 1968
[9] Th. W. Adorno, “Di fronte all'unanimità totalitaria, che fa passare immediatamente per significato l'eliminazione della differenza, può darsi persino che qualcosa della forza sociale si sia ritirato - temporaneamente - nella sfera dell'individuale. […] È sempre stato un elemento costitutivo dell'ideologia borghese, che ogni singolo individuo, nel suo interesse particolare, si ritiene migliore di tutti gli altri, mentre mette sopra di sé gli altri, in quanto comunità di tutti clienti.” Minima Moralia, Einaudi, 1974
[10] P. Freire, La pedagogia degli oppressi, Mondadori, 1971
[11] Th. W. Adorno, “La suddivisione dell'uomo nelle sue facoltà è una porzione del lavoro su i suoi presunti soggetti, inseparabile dall'interesse di poterli impiegare con un utile superiore e, in generale, di manipolarli.” , op. cit.