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Unicità e relazione, identità e gruppo

Sull’identità si basa anche l’ingenuo pregiudizio che la psicologia dell’uno sia uguale a quella dell’altro, che dappertutto valgano gli stessi motivi, che ciò che piace a me debba ovviamente piacere anche agli altri...[12]

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L’evoluzione sociale ha comportato mutamenti nella distribuzione dei ruoli, ma solo apparentemente; di fatto i "diversi" rimangono tuttora tali, emarginati. Non solo, ma il ruolo sociale che si è veramente evoluto è quello di chi si occupa di diversi: l’operatore sociale.

Un collega mi fa notare come noi che lavoriamo con gli handicappati siamo trattati come tali anche dagli stessi colleghi dei servizi sociali, operanti in altri ambiti. Ponendomi nell’ottica istituzionale vorrei aggiungere “giustamente”. Infatti, svolgiamo la stessa funzione sociale: sottolineiamo alcuni ruoli normali, mantenendo viva l’inadeguatezza di altri. Però considero ciò che dice Carl Gustav Jung, «l'identità è sempre un fenomeno inconscio»[13], e capisco che difficilmente l’operatore sociale si vivrà deviante o emarginato come l’utente con il quale lavora! Piuttosto dice d’essere "trattato" da handicappato, ma in realtà non c’è differenza.

Chi siamo? Chi abbiamo davanti? Mi pongo queste domande seguendo queste riflessioni. Quindi rivolgo anche ai miei colleghi la domanda "che cosa stiamo facendo?", "che cos'è il nostro lavoro?" e mi accorgo che, per lo stesso cammino svolto, ognuno offre un senso diverso. Infatti ognuno di noi col proprio Io specifico, con un retroterra, passato e formazione diversi, ha aspettative differenti dal lavoro svolto. Ognuno di noi ha il proprio punto di vista sulla strada.

La società, quindi l'istituzione che la rappresenta, si prefigge un punto d'arrivo. Per avere certezze vede la strada finalisticamente, con un punto di partenza e un necessario punto d’arrivo. Io, come molti altri, penso che la strada sia il processo, che può essere letto con diverse domande. Una di queste riguarda l'essenza, "che cosa". Un’altra la motivazione, il "perché". Posso sondare il tempo, "quando" e il modo, "come". Ognuna di queste domande non esclude le altre e risponde ad un punto di vista, un'idea. Condivido a pieno l’affermazione di Bertrand Russel quando dice che «Ogni idea è una buona idea, purché non sia l'unica ! »

Il confronto con i colleghi si evolve nel tempo; dapprima seguiamo gli stessi segnali e guardiamo la superficie, l'esteriorità del lavoro. Dobbiamo superare parecchie resistenze nelle relazioni tra noi e affrontare i nostri pregiudizi, fino a quando decidiamo di cercare un senso comune, di scrutare l'interiorità. Non è per niente ovvio e scontato, nessuno ci chiede di fare questo: in fondo tutti già lavoriamo seguendo un preciso mandato istituzionale. Tutti seguiamo già i segnali che incontriamo e che ci indicano lo snodarsi del tracciato previsto, ma fondamentalmente siamo tutti diversi.

Poco per volta, smussati e adattati gli spigoli dei singoli Io che cercano di affermarsi, come in un mosaico, si compone un'autentica cultura del gruppo di lavoro, che si muove attorno alle emozioni delle persone e si sviluppa dal confronto del senso che ognuno estrae dalla propria esperienza quotidiana. Seguendo questo filo rosso vogliamo attraversare assieme, operatori ed utenti, questo labirinto rieducativo. In questo modo, piuttosto che considerare la diversità una condizione da superare o, quantomeno, da limitare, la utilizziamo come strumento di crescita.

Il nostro gruppo vuole valorizzare le caratteristiche individuali, le diversità, mettendo in evidenza l’unicità di ogni persona. Collaboriamo affinché le differenze emergano in modo armonico. Infatti ci è chiaro che la singolarità di ognuno uscirebbe lo stesso, ma questo potrebbe avvenire bruscamente, danneggiando o, nel peggiore dei casi, sopraffacendo l'altro. Viceversa, quando ogni persona è valorizzata per quello che è, anche il gruppo riceve una spinta per autodeterminarsi. Nasce così la cultura del gruppo, come attività di produzione di senso. [14]

Finalmente, assieme agli altri, mi propongo di impegnarmi non solo in funzione dell’identità, ma anche in un’altra direzione, quella dell’individuazione, che, sempre con le parole di Jung, è «un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale.» [15]

Un cammino di individuazione non è facilmente compatibile con un intervento educativo. Infatti, per procedere in questa direzione il singolo deve “tuffarsi” in se stesso per conoscersi nel profondo; deve distinguersi dagli altri. Nel far questo, però, c’è il grosso rischio di scivolare nell'individualismo, che è la negazione del senso sociale. Tanti individualisti formano una massa inconsapevole, un gregge. Diversamente tanti individui consapevoli di sé e della propria relazione con gli altri formano una collettività, un gruppo. Perciò un processo di individuazione è il percorso che educatore e educato compiono insieme per conoscere e assimilare le regole collettive. Solo allora potranno crescere come individui. Riprendo un paragone di Jung: ogni albero, individuo, per crescere e fiorire deve affondare le proprie radici in un terreno fertile, la collettività.

Presupponendo che il terreno sul quale poggia tanto l’impegno personale che professionale non sia casuale, riprendo la strada intrapresa porgendo maggior attenzione a ciò che fa di un semplice tracciato, un cammino rivelatore.

Trovo un vecchio appunto, che mi dice: «L’essenza dell’educazione non consiste nell'essere imbottiti di fatti, bensì nell'aiutare a scoprire la propria unicità, nell'insegnare a svilupparla e poi mostrare come donarla.» [16]  In questa frase si manifesta il distacco tra quello che faccio e quello che mi si richiede di fare, ponendo da un lato l'aspetto che identifico con il mandato istituzionale e dall'altro l'intervento personale e l’elaborazione del gruppo.

La sensazione è che l'istituzione "precetti" le caratteristiche degli individui devianti per autolegittimarsi come sistema di norme; diversamente io penso che donare se stesso, la propria unicità, sia una scelta e non debba e non possa essere imposto in nessun modo.

È chiaro che il sistema/istituzione ha un dentro e un fuori, ma devo considerare ciò che è fuori estraneo al sistema? È il dilemma percettivo della figura/sfondo: senza un determinato sfondo difficilmente si identifica la stessa figura. Perciò, nell'ottica dell'istituzione, emarginare ed inserire sono fondamentalmente la stessa operazione: mostrare i propri confini. In relazione alle professioni con le cosiddette "fasce deboli" incontro termini come riabilitazione, recupero, reinserimento, ecc. ed è chiaro che sono in funzione della delimitazione del sistema sociale normale.

La mia posizione non è un diverso punto di vista dell’istituzione, ma è qualcos'altro: l'individuo con la sua anima, il suo cuore. Chi apre il proprio cuore agli altri lo fa perché sente di farlo, non perché ragiona sulle conseguenze sociali.[17]

Per riconoscere l’albero che ognuno di noi personifica, distinguo nell'humus collettivo del centro diurno due momenti particolarmente pregnanti: la ricerca artigianale e la ricerca teatrale. Entrambi sono polimorfi e, nel lavoro svolto, non sono effettivamente separati tra loro. Solo per semplicità tratto i due momenti distintamente, tralasciando alcuni aspetti per approfondirne altri, più significativi nella mia strada.

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[12] C.G. Jung, Opere vol. 6, Tipi psicologici, Boringhieri, 1969

[13] C.G. Jung, Op. cit.  

[14] G. Mantovani, «La cultura non è uno stampo che rende uniformi le persone. Al contrario, è proprio la cultura che ci permette di cogliere le differenze umane. Essa deve essere considerata come uno strumento di mediazione, una cornice condivisa, una rete di senso che avviluppa uomini e cose.[…]grazie ad una rete di analogie la cultura collega domini differenti della realtà. È questa rete di senso che permette ai membri di una società di comprendersi e di comunicare. », Orgoglio e dignità, in Psicologia Contemporanea - n. 146, 1998

[15] C.G. Jung, Op. cit.  

[16] L. Buscaglia, “Vivere, amare, capirsi”, Mondadori editore, 1984

[17] A. Lowen, «Il sentimento … è qualcosa che succede, non qualcosa che si fa, qualcosa che succede e non un processo mentale»,

Il narcisismo, Feltrinelli editrice, 1985

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