Questa denominazione poco felice, mal pronunciata dalla maggioranza dei partecipanti, sta ad indicare il luogo fisico e il momento nei quali si comprendono il leggere e lo scrivere. Ma anche qui si scoprono diversi punti di vista. La costruzione sociale dell’identità pone l'attenzione su saper scrivere e saper leggere. Ma che cos'è scrivere? Scrivere è lasciare un segno di sé e la radice SKER*IBH significa incidere, grattare. Si sa che solo ad un certo punto della sua esistenza sulla terra, l'uomo ha cominciato a "incidere". Si conoscono addirittura antiche civiltà molto avanzate che non conoscono la scrittura, intesa come insieme di segni permanenti con significati codificati, che si possano ri-leggere, cioè legare assieme (dalla radice LEG). D’altra parte non si può negare che ogni graffito, ogni incisione è “scrivere”. Anche al centro diurno “scrivere” è inteso come lasciare un segno o dei di-segni distintivi.
Il segno è un tratto distintivo, la firma che definisce l’unicità di un documento. L'etimologia ci dice che DEHR è la radice del sanscrito dharma, "ciò che è a posto", del latino firmus = stabile, da cui le voci italiane fermo, firma e conferma.
Tuttavia nel laboratorio di alfabetizzazione si mantiene un atteggiamento, almeno in apparenza, meno esistenziale: si gioca con le parole. Parola deriva dal termine latino parabola, che significa confronto, paragone, metafora. Con le parole si raccontano esperienze, storie e sogni. Il gioco, più o meno serio, consiste nel confrontare due aspetti dell'individuo: da una parte la sua biografia descrittiva e la sua cronaca quotidiana, dall'altra la sua narrazione, la fantasia, le sue storie, i suoi sogni. L'aspetto grafico, scritti o disegni, mantiene nel tempo il gioco.
Scrivere e leggere è soprattutto questo: raccontare e fermare il racconto. Documentare, per sé e per gli altri, ciò che si fa al centro diurno. Cronache e racconti sono anche il materiale per un giornale redatto dal centro.
Nel progetto di espressione teatrale quest’attività entra in gioco quando, oltre ad esprimere le emozioni con il corpo, si decide di fermare i propri vissuti raccontandoli e fissandoli su fogli di carta o su files del computer.
Gli stimoli raccolti durante i momenti della drammatizzazione, nella quale vengono espressi col movimento, ma anche con verbalizzazioni e disegni, qui vengono rielaborati in discussioni a piccoli gruppi.
Le idee si chiariscono e si sviluppano delle storie. Attorno a personaggi, oggetti o luoghi, punto di partenza anche nel momento dell’espressione corporea, si sviluppano trame, si costruiscono scenari fantastici. «Non è per scoprire chi sono che devo raccontare la mia storia, ma perché ho bisogno di fondarmi su una storia che io possa sentire “mia”»[47] e continuare a rappresentare in palestra, su di un palco e nella vita quotidiana.
Nel descrivere la sceneggiatura, il laboratorio riveste la funzione di uno specchio: tutto ciò che è vissuto durante la drammatizzazione viene rivisto con un sufficiente distacco per essere analizzato.
Privilegiando l’aspetto narrativo, in secondo piano si affrontano anche l'approfondimento di grammatica e di altri aspetti strutturali del linguaggio. Questi ultimi, per alcuni sono un accessorio, per qualcun altro una motivazione, per altri un fastidio, come del resto quando ci poniamo di fronte allo specchio vediamo bellezze e imperfezioni, ma siamo sempre noi.
La composizione delle storie passa anche attraverso le poesie. C’è chi le compone e chi le raccoglie dai libri, a volte modificandole a seconda del significato vissuto.
In questo aspetto si confondono con i sogni che ogni individuo riporta e che manifestano le immagini che provengono dagli spazi immensi, interni ad ognuno di noi. In queste sceneggiature dell’anima compaiono i personaggi più bizzarri e nel contesto della ricerca di espressione teatrale siamo autorizzati a farli rivivere.
Carl Gustav Jung chiama con un’espressione colorita e simpatica “il piccolo popolo” tutte le maschere che ci portiamo dentro di noi, nel nostro mondo di immagini. Il mondo che preme per scorrere e non fermarsi. Allora «il modo migliore di mantenere il flusso delle immagini […], è quello di lasciare che le voci dell’anima, come i personaggi di una favola, continuino il loro racconto, anche quando il libro è già chiuso. »[48]