Relazione nell'ambito del convegno "Il sociale e il teatro di ricerca" - Gorizia, 17-10-2001
Come ogni manifestazione espressiva, il teatro incarna la necessità di relazione, anche quando è un monologo, anche quando è “io ballo da sola”. Questo bisogno di non bastare più a se stessi per contenere tutto ciò che abbiamo dentro è manifestato almeno da quando Eva addentò la mela: certo, già prima esisteva l’Eden, già prima esisteva Adamo, ma solo con la mela (la consapevolezza) Eva ebbe il desiderio di comunicare, di mostrarsi.
Allo stesso tempo, è sorto anche il bisogno di nascondersi, cioè di darsi un limite. La consapevolezza “senza freni” ha chiarito ad Adamo ed Eva quanto siamo vasti. Forse è stata questa la prima paura: troppo vasti! O siamo due, doppi, nudi e coperti, maschi e femmine.
La vastità è solo riferita ad un limite che stimola il bisogno di mostrarsi.
Il teatro è questo: mostrare la propria identità agli altri. Forse è meglio dire “le proprie” identità, le diverse maschere che indossiamo non solo sul palco, ma anche nella vita quotidiana.
Così, dallo stesso momento iniziale assieme al seme “teatro” ha iniziato a germogliare anche il seme “istituzione”, entrambi semi dello stesso albero. Col tempo sono cresciute piante diverse, reciprocamente parassite e quindi tendenti ad “eliminarsi”.
L’istituzione crea dei limiti, cioè propone alcune regole che necessariamente mettono da parte qualcos’altro. Il teatro mostra! Vuole mostrare tutto, anche i limiti dell’istituzione. Per questo, periodicamente, questi soggetti si scontrano tra loro.
Perché periodicamente? Come del resto tutte le arti anche il teatro, nella sua foga espositiva, è di un genere diverso rispetto all’istituzione, la quale solo dopo aver valutato ogni possibile rischio, aggiorna i suoi criteri di accettazione. Questo processo richiede del tempo ed è per questo che l’istituzione si trova costantemente a rincorrere.
Dobbiamo pensare che il “limite” è una funzione maschile, yang, non è contrapposto all’espansione o alla trasgressione, che sono anch’esse maschili, ma alla creatività, il femminile, lo yin.
Un sapere molto antico ci dice che, ad esempio, nell’ astrologia Saturno (il confine, la regola), concorre con la Luna, la femminilità, per la strutturazione dell’Io negli individui.
Ancora dal passato perviene la storia di Didone che diviene regina di Cartagine affronta Iarba, il re numida non con una guerra, ma con uno slancio di creatività.
Il teatro che trasgredisce continua ad essere maschile (poco innovativo). Il teatro che crea è femminile.
Il teatro delle diversità è tale proprio perché si fonda sul bisogno di andare oltre un limite, convenzionalmente e arbitrariamente assegnato ad una caratteristica fisica, psichica o sociale. Non si tratta di trasgredire, ma di creare.
Forse è questa la caratteristica di tutto il teatro: sicuramente distingue il teatro delle diversità.
La sperimentazione teatrale attraversa molteplici sfumature e punti di vista della realtà. Vive prima di tutto il livello simbolico, ricco e polimorfo, associato a storie, percezioni, emozioni.
Anche durante il momento della rappresentazione entra in gioco l’individualità di ogni attore nonostante si predefiniscano azioni precise mediante diversi contenitori (luci, suoni, spazi, tempi, testo). Artaud ci ricorda che «… il vero teatro nasce, […] da un’anarchia che si organizza…»
Il successivo passaggio al livello istituzionale ferma il processo in un modello che sembra elastico, ma è pur sempre una lettura predefinita. Così facendo irrigidisce in schemi le risposte che sono date dalla fluidità della ricerca.
Di conseguenza succede spesso, purtroppo, che parlando di teatro si pensi esclusivamente alla rappresentazione teatrale. Di fatto, quest’ultima non è che il momento conclusivo di un percorso di studio e approfondimento di parecchie tappe. Queste si percorrono gradualmente ben prima di un momento "fissato" in un palcoscenico.
Nel confronto su questo tema, chi fa teatro tende a tralasciare tale considerazione perché può sembrare ovvia, ma spesso non è così, in particolar modo se il dibattito avviene con chi rappresenta l’istituzione per il ruolo che riveste.
Allora ci si accorge di dover chiarire questo aspetto che non si può considerare "solo" linguistico.
Linguistico perché la parola “teatro” significa “luogo per guardare”. Perciò l’istituzione, come sistema normato e normativo, identifica il “modello” di teatro con il luogo della rappresentazione. Di conseguenza il linguaggio corrente divulga questo significato. Diversamente un progetto di ricerca teatrale non è un luogo chiuso e neanche soltanto un insieme finito di attività o regole, ma è un’esigenza di vivere per conoscersi ed esprimersi.
C’è chi ha detto, parlando di musica, che un vero interprete è colui che non suona mai lo stesso brano allo stesso modo. Questo vale anche per il teatro e del resto per ogni manifestazione artistica. È, forse, scontato dire che l’arte non ripete mai se stessa. D’altro canto uno spettatore diventa attore quando riempie di emozioni e contenuti un messaggio teatrale che riceve.
Compito di chi “fa teatro” è di proporre di più assumere una funzione più maschile e persuadere le istituzioni che l tempo e le energie impegnate nella sperimentazione, sono parte del teatro stesso.
Compito dell’istituzione è di accettare le innovazioni, assumere, quindi, un’arma femminile, per una propria evoluzione.
I segni e i modelli sono le caratteristiche dell’istituzione; i simboli sono la linfa della ricerca teatrale.
L’istituzione, in quanto tale deve salvaguardare i suoi limiti. Tutto ciò comporta che qualcosa o qualcuno ne rimarrà fuori. Il dilemma percettivo della figura/sfondo: senza un determinato sfondo più difficilmente si identifica la stessa figura. Perciò, nell'ottica dell'istituzione, emarginare ed inserire sono fondamentalmente la stessa operazione: mostrare i propri confini.
In relazione alle professioni con le cosiddette "fasce deboli" si incontrano termini come riabilitazione, recupero, reinserimento, ecc. ed è chiaro che sono in funzione della delimitazione del sistema sociale normale. Ma il teatro delle diversità chiarisce ciò che ha detto Paulo Freire, cioè «...I cosiddetti emarginati non sono mai stati ‘fuori di’. Sono sempre stati ‘dentro di’. Dentro la struttura che li trasforma in ‘esseri per l’altro’. La loro soluzione, allora, non consiste nell’‘integrarsi’, nell’‘incorporarsi’ dentro questa struttura, [...] ma nel trasformarla per divenire ‘esseri per sé».
Sappiamo tutti quanto questo spaventa: essere vivi e vitali rischia di portare consapevolezza nei componenti di un sistema. E questo può essere pericoloso.
Quando abbiamo proposto il nostro progetto teatrale in un centro diurno per disabili, uno degli appunti che ci è stato fatto (forse il più diplomatico) è che il nostro gruppo lavorava sull’onda dell’eccitazione.
A tutti noi sembrava ovvio che la calma piatta non avrebbe prodotto risultati dinamici, trasformativi. Forse proprio per questo si è temuta “la rivoluzione” nel centro diurno.
Forse per questo l’unica espressione teatrale accettata era l’infantile (e non me ne vogliano i bambini) recita di carnevale o Natale che sia!
Così abbiamo proposto un lavoro che non si basasse su un testo scritto, perché in quel momento, la “parola” era l’impedimento più grosso. Il corpo e il movimento, non erano un impedimento per tutti i partecipanti al progetto di ricerca.
Non era nostra intenzione, ma per i nostri amministratori questo è stato un torto: si prospettava una trasformazione in ciò che era fino ad allora più trascurato, o gestito in modo estremamente limitato.
Nella proposta di sperimentazione tearale in un centro socio educativo per disabili, l’intento era di dare un senso alle attività che già si svolgono da parecchi anni.
L’équipe sente la necessità di punti di riferimento nella pratica quotidiana. Cerca i “luoghi mentali” dove indirizzare l’impegno. In questo senso le attività già presenti nel centro diurno si prestano molto bene a svolgere la funzione di tramite tra scoperta emozionale e realizzazione pratica. In questo caso “teatro” è il collante che riunisce e trasforma le energie del gruppo, indirizzandole verso un momento espressivo.
A questo punto entra in gioco il termine “rappresentazione”, ogniqualvolta si manifesta la relazione di un individuo con un altro. Quando un individuo diventa consapevole di una parte di sé, nascosta, coperta, ad un tratto la esprime, rappresentandosi. L’uomo specchia se stesso nella vita vissuta e da qui il termine spettacolo, in latino piccolo specchio.
«E non sarà una rappresentazione se rappresentazione vuol dire superficie piatta di uno spettacolo offerto a qualche voyeur». Mi approprio arbitrariamente di queste parole che bene stanno a significare l’atteggiamento vitale che manteniamo durante la ricerca. Certo, ci viene fatto osservare che il nostro gruppo lavora se non sulla base dell’eccitazione, ma è il rischio che abbiamo scelto di affrontare. Per non avere un risultato “piatto”, dobbiamo creare una certa tensione e mantenerla senza subirla. Spesso con i disabili si tende a sopprimere la tensione; si considera pericolosa, ma lo è solamente se ingabbiata, solo le tendenze espressive vengono frustrate.
Non nego che vivendo la tensione possiamo mostrare il lato di noi più caotico e complicato, ma d’altronde «Si direbbe che là dove regnano la semplicità e l’ordine non possa esserci teatro né dramma e il vero teatro nasce, […] da un’anarchia che si organizza…»
Durante il percorso di sperimentazione cresce un senso di empatia tra gruppo utenti e gruppo operatori. Per la verità, la consapevolezza di questa, nasce come problema: nell’équipe di operatori ci poniamo la preoccupazione di non farci influenzare nelle dinamiche di gruppo dalle problematiche che sorgono nel gruppo utenti. Cosa in realtà poco probabile, dal momento che viviamo assieme otto ore al giorno per cinque giorni la settimana. Perciò accettiamo la differenza tra noi, non solo come fattore inevitabile, bensì proprio come l’aspetto che ci tiene uniti e ci fa maturare come gruppo. I ruoli, beninteso, rimangono e in alcuni momenti vengono addirittura rinforzati, proprio per le caratteristiche stesse della drammatizzazione. Perdono invece importanza pregiudizi o moralismi sulla differenza tra i ruoli.
A questo proposito mi piace caratterizzare questo lavoro come ecologico, dove l’impegno di ogni individuo, operatore o utente, familiare o obiettore di coscienza che sia, è in funzione dell’equilibrio globale.
Per questo, con un linguaggio ecologista, sottolineo un’idea di fondo sottintesa che ci sostiene ed è “riciclaggio”. Riciclaggio non è un’attività, ma uno stile di vita, che calza bene ad un centro diurno socio educativo. Per riciclare è necessario raccogliere gli scarti, cioè utilizzare in modo diverso ciò che non può servire, per proiettarlo in un’altra dimensione, con un altro punto di vista.
Riciclaggio è cercare diverse opportunità, sia per i materiali, sia per le persone, come è anche elasticità sociale nel riconoscimento di trasformazioni possibili.
Diverse culture non solo del passato ci mostrano che i devianti, se non sono soppressi per tempo, diventano oracoli, sciamani. In altre parole, nel processo di normalizzazione di una società è tanto facile considerare le stesse persone come semi-uomini, in senso spregiativo, ma anche semi-dei.
La descrizione della ricerca teatrale attraversa i nodi cruciali come il corpo, lo spazio e il movimento, con conseguenti diramazioni verso la voce e la musica, il personaggio e il costume, le luci e la scenografia. Contemporaneamente può essere vista attraverso diversi specchi: le attività che il centro diurno ha sempre proposto e che il progetto di espressione teatrale ha il merito di integrare, fornendo su di una base unitaria un senso comune.
Atena non viene partorita, ma fuoriesce dalla testa di Giove; per questo è considerata la dea della ragione. È raffigurata con una lancia o una spada per dividere e con uno scudo per proteggere.
La divisione, la scelta e il discernimento, come anche la protezione siano aspetti fondamentali delle pratiche artigianali.
Nella tragedia Le Eumenidi, Eschilo ci parla delle Erinni, forze istintive. Somigliano molto alle “voci” che sentono gli psicotici: tormentano e opprimono Oreste, l’eroe. Atena, vista qui come dea della prudenza, assieme a Peitho la persuasione, convince le Furie (come sono anche chiamate le Erinni), a non infierire, e lo fa offrendo loro un posto nell'Olimpo.
«Esse [le Erinni] mantengono la loro specifica identità. Rimangono "outsiders" […] anche se hanno ricevuto un posto. In questo contesto "dare un posto", cioè né rimuovere né trasformare, equivale a risanare archetipicamente»
Per questo Atena mi ricorda che l'artigianato può espletare alla funzione riabilitativa istituzionale, nel senso di inserire nella società figure considerate in un primo tempo 'devianti'.
Tuttavia, mirando all’ingresso nel mercato del lavoro, non si giustifica l’impiego così diffuso dell’artigianato, del fatto a mano. Piuttosto, nei servizi riabilitativi l'artigianato è proposto per assicurare quel terreno fertile di regole collettive sul quale si radica il singolo individuo.
L’analisi etimologica mi rivela che dalla radice are derivano termini quali arte, artigianato e articolazione, ma anche ordine e armonia, spalla e braccio (tedesco ARM. Sempre dalla stessa radice si sono evoluti i termini rito e ritmo.
Ricomponendo le diverse indicazioni mi raffiguro l'artigianato come un muoversi ordinato del corpo su attrezzi, che risponde ad un rituale.
I valori collettivi del mito e del linguaggio mi riportano alla “regola” non del singolo individuo, non della nostra società, ma della storia dell'umanità. Perciò il valore dell'artigianato incorpora in buona parte l'anima delle regole che da sempre guidano i rapporti tra gli uomini. Per questa ragione ritengo che sia importante ridare alle attività artigianali una sacralità, che l’automatizzazione e l’industrializzazione hanno loro tolto. Infatti nell’approccio animistico l’artigiano è in intimo contatto con il suo prodotto.
Bibliografia
① Antonin Artaud. Il Teatro e il suo doppio: Einaudi, 1968.
② Freire, Paulo. ”La pedagogia degli oppressi”: Mondadori, 1971.
③Jacques Deridda, Prefazione. a A. Artaud. “Il Teatro e il suo doppio” : Einaudi, 1968.
④ Artaud, Antonin. cit.
⑤ Hillman, James. "Ananke e Atena. La necessità della psicologia anormale”.“La vana fuga dagli dei”: Adelphi, 1991